Apriamoli i libri

Recensione, impressione a Il SILENZIO

Chiudere un libro, terminarlo e sentirsi pieno, come se le parole che hanno tracciato, i solchi sulle pagine, hanno messo radici nel pensiero. Ti hanno fecondato di input, di elettricità nella richiesta, nella diramazione delle abitudini ragionative. Inoltre, terminare un libro come “Il silenzio” di Don DeLillo è scoprirsi nel presente e non essere sicuro che ciò che ti sta raccontando non potrebbe succedere da lì a poco. Dopo l’avvento della pandemia, con un virus non ancora del tutto sconfitto ma arretrato (almeno al momento dello scritto), una nuova e peggiore catastrofe è ciò che non ti aspetti, che non immagini, che non vorresti, invece è lì a portata di pagina: il nero. L’assenza di segnale – il rincorrersi dei bit -, di dati e di risposte di un mondo intero. Inizialmente non sai nulla, leggendo non puoi sapere, sei tra i due coniugi che tornano da un viaggio, impari a conoscerli entrando nelle loro vite, nei dettagli che vengono smaltiti, poi sei in una stanza, davanti alla tv a guardare il Super Bowl, si discute e improvvisamente è il nero, i tre personaggi si divincolano dalla realtà in modo diverso, chi si lega al passato aprendo un varco nella memoria, chi si rifugia nelle teorie della fisica pre-quantistica e chi, ascolta, si dimena e resiste. Questo testo viaggia su doppio binario, la coppia in aereo e il trio nel salotto, e scopriamo che i primi si dirigono dai secondi, lì la storia si incaglia, ruota e si conclude nelle domande; DeLillo ci lascia senza risposte, con un’angoscia mista a ricordi di un non più possibile mondo arcaico. Il nero dello schermo si dilata, sembra non lasciare scampo, sicuramente le teorie esposte nella fine appesantiscono un po’ il testo, ma allo stesso tempo lanciano una sfida, a comprendere.

Ci sono riferimenti ad altri testi, film, canzoni, dipendenze. La strada di McCarthy, ad esempio…

Polteppe

“Polteppe polteppe” e uscivo, correndo, sbucando dagli angoli dove le ombre riposavano dagli attacchi del sole, scivolando sotto il tavolo e allungando la mano in attesa della rosetta ripiena di polpette al sugo. La domenica era sempre stata così nella casa materna, piena di intrugli e soluzioni, colma di rimedi e distrazioni. Mia nonna all’alba attendeva il fornaio che ritirava il pane per la cottura, la magia dei segni sul dorso della pagnotta. Mio nonno, contadino, vestiva l’abito del chimico elegante, giacca, pantaloni e camicia, la ritualità degli abiti e il sapore della fatica, e sempre di domenica stendeva attorno ai sacchi di juta uno spesso rotolo di plastica e lì sopra mischiava la storia e la scienza, elaborando il prossimo raccolto, sperando nella buona riuscita del suo pugno e della sua bilancia. E negli anni non ha mai smesso coi riti, non ha mai atteso l’alba, l’ha sempre partorita.

Carne

Nel recidere la mano sinistra ci mise più attenzione, perché la committenza era esigente, e nel messaggio parlava chiaro: applicare la massima cura, usare strumenti sterilizzati, il taglio deve essere a metà del braccio per evitare che ulna e radio… eccetera. Duilio era un ottimo commensale e ragazzo tutto fare, ma leggere troppe volte, era altra cosa, e lui pensava solo a Ersilia che avrebbe riso tanto per la sua sibilante allungata a sentirlo leggere i suoi messaggi, per questo preferiva le emoji, erano più immediate e non facevano perdere tempo, soprattutto quando uno ha del lavoro di precisione da svolgere. E poi la sera, avrebbero mangiato carne fresca dopo il turno, lui le avrebbe fatto la proposta e sapeva come sorprenderla, aveva conservato la mano destra, voleva farne un calco, assottigliare le dita, forse, ma a guardar bene l’anello entrava anche nel mignolo e a lui la cosa piaceva.

Multipli

La chiazza sul soffitto, ogni mattina, spremeva una goccia sulla fronte di Duilio liberandolo dalle lenzuola. E guardando in alto annuiva. Il suo contapassi ne segnava 25 dalla stanza al bagno, colazione e preparativi 50, compreso il percorso per scansare tutti gli oggetti del padre lasciati lì, così come li aveva usati quella sera, persino il proiettile nel muro. Il percorso per arrivare all’autobus era di 485 passi. A lavoro era sempre puntuale, tranne il venerdì perché si fermava a guardare, dalla strada, la finestra serrata di Ersilia. La pensava solo di venerdì per non lasciar entrare nessuno nella sua testa. Dal lunedì al giovedì era pieno di intenti, arrivava a scuola, apriva il registro e solo il giovedì dava un compito. Così da settembre a maggio. A giugno, coi faldoni in mano e i 194 compiti ciascuno, diceva ai 25 studenti: le cose che abbiamo in comune sono 4850.

@gminerva

Anche questo è teatro

Unisco la mia parola buona, le mie frasi incrostate alla richiesta di vita 
e respiro. Non sono un camminatore seriale, seppure sento il bisogno 
della consunzione della suola sul pietrisco. Oltre alla vita risucchiata 
dalle restrizioni sempre più stringenti, si sente la follia che rimane 
chiusa nelle stanze, mentre prima al contrario solcava il palcoscenico, 
si liberava nello scrosciare dell'applauso o nel fischio. Prima avevamo,
ora non ci è concessa la fila, il botteghino, il costo e lo sconto, la 
meraviglia e la parola successiva e pre-ordinata dopo. O il dialogo
nella cena a base di vino e rimembranze delle parole costruite.

Sguardi fermi


Uscire


Sguardi fermi

Il lunedì dell’angelo è trascorso nella segregazione
del terrazzo, a contare i pochi sparuti lampioni,
le briciole spalmate dal vento sulle lenti da vista.
Siamo in tanti, rispettosi del divieto, legati alla vita
e fedeli alla linea di confine del metro e mezzo.
Poi ci sono gli altri, quelli che cavalcano le scuse,
come navi ammarate e scure.

gm.

Biancospino

Biancospino-Hawthorn

All’imbrunire la finestra diviene
specchio, lo sguardo è rivolto
e amara è la vergogna del candore
sul viso, del bianco che possiede
la barba e lo spirito.
Sono giorni, mesi, o forse anni,
riflessi dolciastri, menzogne
che sappiamo dirci solo per resistere.
Resistere ai comandamenti del passo
troppo lento e incespicante.
E tu, nel silenzio del passato, sai dire
solo vocali indistinte e gesti vezzosi;
ti svesti senza pudore della mia pelle
e dell’odore del sangue rappreso.
Incroci le dita, aspettando la resa,
ma conosci lo stesso serpente
che s’avvinghiò al calcagno e si morse
la coda danzando
senza sosta in un cerchio perfetto.

 

gm

Occhio

gazza
Quando sbuca fuori il vento
si fermano un po’ tutti,
tranne la gazza che è in ritardo
e sfida le fronde battute,
si flette e per poco
ci guardiamo mentre passo.
Mi dice e io ascolto,
della fatica e la scommessa,
della grazia e la ricerca.
Poi trova la calma e mulina
nel nero chiomato.
gm

 

La foto

Non sono più un grande lettore, molta parte del mio tempo lo passo a decidere quale sedia sia adatta alla lettura e quale alla scrittura. Non ne viene fuori nulla, se non lo scivolare della sabbia fuori dell’imbuto. Mia moglie mi trova sempre immobile davanti alla finestra, dice che bofonchio o faccio arabeschi nell’aria; ma assorto, non ricordo il momento esatto in cui sghignazzando mi cinge la vita per far uscire una sonora vocale delle profondità della pancia. Poi scappa via ridendo. Non la inseguo, alzo le spalle e riprendo la scelta. Riesco solo a leggere una pagina e mezzo, quando va bene un racconto. Sulla mensola accanto ai libri letti, alcune poesie ficcate nelle pagine, ho posto la foto di mio padre. Sorride, non un sorriso pieno e slargato, ma un sorrisetto appena accennato, con le rughe che s’arrampicano sugli occhi. Lo guardo ogni volta che vado a nascondere una poesia. Quello era il nostro segreto, il nostro modo d’essere simili. Non perché leggesse poesia, ma era abituato a leggere il giornale tutte le mattine, approfittando del sonno pesante del vicino, ritagliava per me tutte le poesie che trovava e me le lasciava lì, nel nostro posto. Era una gran brava persona, mio padre, voleva insegnarmi a far tutto, e in buona parte credo ci sia riuscito. Gli è mancato il tempo d’insegnarmi la costanza della felicità. Allora ho dato questo nome a mia figlia, non felicità, Costanza.