Polteppe

“Polteppe polteppe” e uscivo, correndo, sbucando dagli angoli dove le ombre riposavano dagli attacchi del sole, scivolando sotto il tavolo e allungando la mano in attesa della rosetta ripiena di polpette al sugo. La domenica era sempre stata così nella casa materna, piena di intrugli e soluzioni, colma di rimedi e distrazioni. Mia nonna all’alba attendeva il fornaio che ritirava il pane per la cottura, la magia dei segni sul dorso della pagnotta. Mio nonno, contadino, vestiva l’abito del chimico elegante, giacca, pantaloni e camicia, la ritualità degli abiti e il sapore della fatica, e sempre di domenica stendeva attorno ai sacchi di juta uno spesso rotolo di plastica e lì sopra mischiava la storia e la scienza, elaborando il prossimo raccolto, sperando nella buona riuscita del suo pugno e della sua bilancia. E negli anni non ha mai smesso coi riti, non ha mai atteso l’alba, l’ha sempre partorita.

Multipli

La chiazza sul soffitto, ogni mattina, spremeva una goccia sulla fronte di Duilio liberandolo dalle lenzuola. E guardando in alto annuiva. Il suo contapassi ne segnava 25 dalla stanza al bagno, colazione e preparativi 50, compreso il percorso per scansare tutti gli oggetti del padre lasciati lì, così come li aveva usati quella sera, persino il proiettile nel muro. Il percorso per arrivare all’autobus era di 485 passi. A lavoro era sempre puntuale, tranne il venerdì perché si fermava a guardare, dalla strada, la finestra serrata di Ersilia. La pensava solo di venerdì per non lasciar entrare nessuno nella sua testa. Dal lunedì al giovedì era pieno di intenti, arrivava a scuola, apriva il registro e solo il giovedì dava un compito. Così da settembre a maggio. A giugno, coi faldoni in mano e i 194 compiti ciascuno, diceva ai 25 studenti: le cose che abbiamo in comune sono 4850.

@gminerva